Cambiare la mentalità dell’organizzazione per essere competitivi in un mondo digitale

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Cambiare la mentalità dell’organizzazione per essere competitivi in un mondo digitale

Negli ultimi anni tutti parlano di rivoluzione nella tecnologia, nelle competenze, nei contratti. Pochi si concentrano però sulla condizione di base di ogni rivoluzione, vale a dire il cambio di mind set nelle persone. Con mind set intendiamo cambiare la mentalità lavorativa da come l’abbiamo sempre conosciuta: come un gioco di contrasti tra quello che realmente facevamo al pensiero “libero” che avevamo. Nella seconda parte del ‘900 le organizzazioni aziendali si ispiravano tra i modelli militari e la catena di montaggio. Quindi la vita lavorativa era per la maggior parte standardizzata, ripetitiva e delimitata in dogmi ben precisi.

Chi in natura ha bisogno di una vita subordinata, protetta e ripetitiva? Un bambino!

Infatti quel tipo di organizzazione del lavoro lasciava emergere spesso e volentieri il bambino che è in noi, generava un approccio mentale al lavoro con generosi tratti infantili. Quando ridevamo per le disavventure del “Ragionier Fantozzi” non ridevamo solo per le sue gag comiche, ma perché ci ritrovavamo in quel mix di atteggiamenti bambineschi.

Al giorno d’oggi il bambino deve diventare adulto perché il suo lavoro non è più protetto, standardizzato o lo è molto di menoNessun datore di lavoro ci può garantire che avrà bisogno di noi anche solo fra un anno, e che le nostre mansioni saranno le stesse di oggi. Le aziende sono esposte molto più esposte alla competizione globale e le nostre competenze esposte alla continua evoluzione tecnologica. Quindi il “bambino” reso pigro dalla ripetizione degli stessi gesti e reso capriccioso dalla sicurezza di essere protetto nel suo percorso è chiamato a diventare “adulto”, responsabile, autonomo, intraprendente.

Un tratto tipico della “mentalità bambina” sul lavoro: “Non dipende da me”. Questa affermazione serve più a noi stessi per non stare troppo male dai nostri stessi fallimenti/delusioni “non avrei potuto fare diversamente”. Oltre a questo l’infante che è in noi emerge in altre modalità sul luogo di lavoro.

Imparare a riconoscere questi atteggiamenti significa aumentare la nostra consapevolezza, guardarci allo specchio, riconoscere “il bambino” che ogni tanto in ciascuno di noi prende il sopravvento e metterlo a tacere. Ecco dunque almeno altri 6 atteggiamenti infantili, fortemente interconnessi l’uno con l’altro, con cui tutti noi dobbiamo fare i conti:

1) “Tu non mi capisci/non mi ascolti/non mi dedichi tempo”. Sono frasi che pensiamo o che pronunciamo spesso nei confronti del nostro capo, ma anche di colleghi e clienti. È come se la nostra voce interiore dicesse “io ho un problema perché sei tu cattivo che non mi dai abbastanza attenzione”. Questo atteggiamento tende ad essere percepito come una lamentela, infatti solitamente gli altri non reagiscono in modo collaborativo a questo tipo di messaggio. Siamo importanti ma non siamo al centro della vita di chi lavora con noi. In un mondo frenetico e competitivo oggi un lavoratore “adulto” deve saper resistere a situazioni anche prolungate di solitudine, in cui non c’è nessuno che ti offre feedback e gratificazioni.

2) “Tu ti approfitti di me/di noi”. In questo schema ricorrente il capo o il datore di lavoro o il cliente è il carnefice e il lavoratore è la vittima. Non è solo uno schema ideologico. È anche e forse soprattutto uno schema psicologico. In ogni novità, in ogni progetto, in ogni situazione che ci mette in discussione, anche quando ne ricaviamo vantaggi personali, il nostro modo di esorcizzare paura e insicurezza è quella di identificare l’inganno di un cattivo egoista che ci vuol togliere qualcosa.

3) “Non sono capace/Dimmi cosa devo fare”. In questo schema la voce interiore è quella di un bimbo che dice “guarda che io sono solo un bambino e tu non mi puoi lasciar fare cose che mi mettono a disagio o che mi potrebbero portare a sbagliare e ad essere sgridato/ridicolizzato. Non posso rischiare di sbagliare.”. Inutile dire quanto questo motivo sia deleterio in un mondo del lavoro in cui le persone sono spinte all’autonomia e all’intraprendenza.

4) “Tanto a me non importa niente”. Di solito pronunciamo questa frase quando proviamo disagio e sentiamo di non essere adeguati all’attività che stiamo svolgendo o all’ambiente in cui stiamo operando. Il bambino che è in noi sussurra “questo gioco non mi va, non mi piace. Se proprio devo continuare a giocare lo faccio volontariamente male o con il minimo sforzo. L’obiettivo visto che non mi diverto io è che non si diverta nessuno così presto cambiamo gioco.”

5) “Invece non è così”. Prendere atto della realtà è forse la definizione più esaustiva del processo per cui si diventa adulti. Non accettare che il prodotto che abbiamo messo sul mercato ha fallito, o che la nostra prestazione sia stata mediocre, o che i numeri abbiano smentito una nostra teoria significa ripresentare il mondo immaginario del bambino, che si chiude occhi e orecchie perché la verità è troppo dolorosa.

6) “Io, io, io, io”. Quando siamo bambini il mondo coincide con noi stessi. Crescere significa prendere consapevolezza di essere una briciola che fa parte di un progetto più grande. Nel nuovo mondo del lavoro in cui per tutti diventa sempre più decisiva la capacità di relazionarsi con gli altri, “uscire dall’io” è condizione fondamentale di successo e soprattutto di benessere.

Una rivoluzione digitale che non sia accompagnata da un cambiamento culturale rischia di non portare i benefici attesi. «Affinché qualsiasi trasformazione abbia successo le persone devono essere pienamente coinvolte nel progetto e condividere la vision dell’azienda, soprattutto quando c’è di mezzo il digitale», sottolinea Aashish Gupta, research analyst di Gartner.

By |2020-10-21T15:31:00+00:00Febbraio 27th, 2020|Gestione del Personale|Commenti disabilitati su Cambiare la mentalità dell’organizzazione per essere competitivi in un mondo digitale